"L'Opinione" apparsa su "Il Tirreno"
del 1 maggio "Ma non chiamatelo volontariato" mi ha convinto a non
aspettare ancora, perché mi ha confermato che ci sia proprio bisogno di
precisare qualcosa.
Prima di tutto va detto che ha ragione don Cecconi
quando osserva che l'impegno del noto politico in un Istituto per anziani non
va chiamato volontariato, ed io aggiungo che non va chiamato neppure
"servizi sociali".
Il Tribunale di Sorveglianza di Milano, infatti, ha
affidato il politico di cui sopra non ai "servizi sociali" ma al "Servizio
Sociale", e “Servizio Sociale” non è l'impegno che il condannato deve
svolgere e neppure il Centro in cui lo deve svolgere, ma è invece un Ufficio, e
precisamente l'Ufficio Esecuzione Penale Esterna del Ministero Giustizia, che
ha la responsabilità dei condannati che gli sono affidati dal Tribunale.
L'"Affidamento in prova al Servizio Sociale"
non consiste, perciò, in un’attività di carattere sociale ma è una precisa
forma di esecuzione della pena, e della pena ha tutte le caratteristiche
(limiti e divieti, controlli, ecc.), che esiste dal 1975 anche se ancora molti
(opinione pubblica ma spesso anche giornalisti e politici) non la conoscono e continuano
a pensare che pena equivalga a carcere. E' una forma di pena che viene concessa
in alternativa al carcere solitamente con l’obiettivo di far iniziare o
proseguire un personale positivo impegno di vita, di inserimento sociale e di
responsabilizzazione, e quindi, per esempio, per lavorare, o seguire un
programma terapeutico, o altro simile.
Poiché in Italia sta finalmente crescendo
l’attenzione alle vittime ed al dovere di responsabilizzare i condannati nei
confronti della collettività, da alcuni anni i Tribunali di Sorveglianza alcune
volte aggiungono agli obblighi nell’Affidamento anche un impegno di carattere
sociale, che è corretto non chiamare “Volontariato” ma "attività gratuita
in favore della collettività", e che non è, perciò, il punto centrale
dell'Affidamento ma un di più che si chiede al condannato a titolo di
riparazione del danno - torto fatto alla comunità con il reato.
Nei casi di condannati che non hanno problemi di
marginalità ma problemi opposti di non corretto e a volte eccessivo
"inserimento sociale", obiettivo dell'affidamento deve essere ovviamente
non il reinserimento ma l'educazione alla legalità e la responsabilizzazione,
ed in questi casi un'attività di carattere riparatorio è di particolare
importanza proprio affinché la misura alternativa non sia centrata sugli
interessi del condannato ma anche su quelli degli altri cittadini, e
soprattutto dei più deboli.
Quale direttore dell'Ufficio Esecuzione Penale
Esterna di Livorno, posso dire, per la nostra esperienza, che, spesso, un
impegno a favore degli altri porta tanti condannati a riflettere anche sul
proprio reato, sui propri torti, sulla propria vita, e soprattutto a diventare
più attenti ai bisogni degli altri, tanto che diversi affidati continuano a svolgere l'impegno nelle associazioni anche
dopo aver finito di scontare la pena, e, quindi, a quel punto, questa volta sì come
attività di "volontariato".
Questo però non succede, ovviamente a tutti, e
certamente non a chi disprezza la misura che ha lui stesso chiesto ed a chi si
sente umiliato a dialogare con assistenti sociali. Ma qui passiamo al problema dell'idoneità
dell'Affidamento al Servizio Sociale per persone che non vogliono portare
avanti un percorso di recupero dei valori di legalità e di responsabilizzazione,
e che pertanto, secondo alcuni, dovrebbero scontare la pena in carcere o in
"detenzione domiciliare" (da non confondere con gli "arresti
domiciliari" che sono una misura prevista per chi è ancora in attesa di
una condanna definitiva). Ma questa è un'altra questione."
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